IL VECCHIO E I PALLONI

I Quaderni del torchio a mano - 1989 (secondo quaderno)

(60 esemplari numerati in cifre arabe e dieci in cifre romane su carta Amatruda di Amalfi)


acquaforte di Pino Di Silvestro

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L'infanzia, a farci, è piena di vecchi. Intanto ci sono i nonni, e sono quattro.

Poi ci sono gli zii, sembrano anch'essi vecchi. poiché danno consigli, ma soprattutto nel senso dell'adempimento. Poi ci sono gli amici dei nonni, stanno a guardare il tempo che passa, si mettono davanti al sole che tramonta, fumano contornando il selciato di larghi sputi, socchiudono gli occhi e non si sa se dormano o meditano. Ma non dormono, sono vigili e astuti, perché a un piccolo rumore aprono gli occhi, sembrano sorpresi e addirittura spaventati, invece sono pronti a rimproverare, bizzosi e irritati.

La vita comincia con questa saggezza degli adulti, finisce con la propria saggezza. Ma non si sa, o si viene a sapere solo dopo quando è tardi. La saggezza lo scacco dell'esistenza, il cumulo degli anni che diventa memoria, questa che rincorre se stessa, continua fuga che si stampa allampanata come un film che gira a ritroso. Si resta davanti all'immagine, ma perché non c'è dove andare.

L'immagine, cioè una evanescenza illuminata.

Sopra l'infanzia si sporge il volto grinzoso della vecchiaia, la voce rauca e cavernosa. Crescere significa diventare vecchi. Qualcuno diventa pure pazzo. C'è n'era uno al mio paese. Il mio paese a volte si riempiva di odori: di miele, di zagara, in autunno c'era quello rugoso delle cotogne, quello dolciastro delle carrube, o quello lento e vischioso dell'olio nei giorni di trappìto.

Questo vecchio di cui parlo, il pazzo, in verità pazzo lo era stato da sempre, anche da giovane, tanto che la moglie lo aveva lasciato, se ne era andata con uno che girava le fiere, vendeva noccioline e caldarroste.

Il paese le aveva dato ragione poiché il marito non voleva figli, diceva che non voleva dare altra carne alla terra. E soprattutto non voleva lavorare. Aveva un pezzo di terra che lasciava incolta tranne una una parte dell'orto e qualche albero da frutto.  "Il poco mi basta, il molto mi sopravanza", pare fosse una frase da lui sempre ripetuta. Un'altra parte, era riservato ad un oliveto, che era piccolo ma molto curato. Il resto della terra era per gli animali: diverse capre, qualche mucca, un asino, molti cani. A volte, in certe mattinate d'alba se ne sentiva il vocio, i latrati, gli abbai, gli ululati che salivano da qualche vallone e affluivano nel paese turbando il sono della gente. O si vedeva nei tempi del raccolto, passava accanto alle aie, raccoglieva spighe dimenticate, sempre circondato dai suoi cani che gli venivano dietro o correvano davanti a lui, ce n'erano di piccoli e svelti, o degli enormi e terribili, a qualcuno mancava un occhio, o una zampa, un altro aveva mezzo deretano, che un colpo di fucile s'era portato via l'altra metà. Lui li raccoglieva, li curava, dava loro un nome; restavano con lui.

Lo chiamavano, dalle aie, lo invitavano a farsi una giornata di paga. Nemmeno rispondeva. Non lavorava, se il lavoro se il lavoro è prestare la propria forza in cambio del salario. Lavorare invece per sé, ma questo non lo considerava lavoro. "Passo il tempo" diceva.

In questo passare il tempo era riuscito a costruirsi un casa; una specie di casa. 

Nulla era costruito a filo, muri, e finestre erano sbilenchi, e poiché utilizzava il materiale di scarto che raccattava in giro, pavimenti e finestre erano di vari colori e fogge. All'ingrasso aveva collocato mezzo portone di bronzo di un'antica tomba che era stata demolita.

Invece riusciva nella produzione dell'olio. L'ogghiu ru pazzu, si diceva, l'olio del pazzo. 

Il suo oliveto non conosceva buone o cattive annate, poiché lui lo curava, vi portava l'acqua se era momento di siccità, o copriva le piante con speciali tendoni se il sole a volte era troppo cocente. Aveva i suoi metodi. Come pure per fare l'olio. Usava il procedimento della sbrja, antico e ormai non usato. La sbja è una sorta di asta lunga e piatta che, manovrata, spreme le olive chiuse in un sacco di canapa. Dopo due ore, l'olio, filtrato attraverso la canapa, raccolto nel fondo della madia, viene immesso in un recipiente, ed è limpido, trasparente e terso, mentre il sacco svuotato dei nozzoli rimasti intatti e perfettamente puliti, viene riempito per una nuova frangitura. Un lavoro estenuante per il quale occorrono due persone robuste, una per manovrare la sbrja l'altra per rivoltare di continuo il sacco. Una volta vi era adibita la moglie, ma quando costei lo abbandonò (pare dicesse la donna, che lui l'avesse sposata soltanto per la sbja), fece tutto da solo: con un sistema di tiranti e di leve, manovrando la leva per mezzo del tirante attaccato al piede, onde aver libere le due mani per poter rivoltare il sacco, il un ritmo forsennato e però uniforme, l'olio veniva fuori.

Era un olio finissimo, di solo polpa, adatto per condimenti e per stomachi delicati, per ammalati e vecchi.

Si andava da lui quando c'erano malattie. Non voleva soldi,  poiché barattava l'olio con altri prodotti.

Era pazzo, senza dubbio. Stava solo circondato dai cani; non lavorava, tranne nella stagione dell'olio; non parlava con la gente; non mangiava nemmeno i conigli che pure allevava e che vivevano assieme ai cani secondo una convivenza che pareva mostruosa. 


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