L’antropologia filosofico letteraria di Sebastiano Addamo *

di  Pietro Mazzamuto


 Credo che legittimamente si possa parlare in Sebastiano Addamo di antropologia e, per giunta, di antropologia culturale, se la sua attenzione filosofica e letteraria fu esplicitamente e costantemente rivolta all'uomo, che egli avverte come entità problematica, se programmaticamente nel saggio vittoriniano parla di "problema dell'uomo" Vitiorini e la narrativa siciliana contemporanea, Caltanissetta - Roma, 1964, pag.5), e se il carattere culturale di questa antropologia, (sin dalla intuizione di Taylor, che risale a11881,e giuste le impostazioni problematiche e teleologiche dei maggiori antropologi del '900, quali Malinowski, Levy-Strauss, Boas, Kroeber), proviene fondamentalmente dall'uomo in quanto homo sqpiens, o meglio homo cogitans, invano soppiantato dall' homo videns della nuova cultura telematica (si leggano le calzanti osservazioni di G. Sartori in Domo vldens, Bari, 1998). Dunque antropologia culturale come antropologia filosofico-letteraria, se è pure vero che Sebastiano Addamo, da uomo siciliano, guarda alla Sicilia, (ma va di conserva con gli altri filosofi e letterati siciliani), quando getta ponti con l'Europa e col mondo e, anche lui avalla la nozione, prima vittoriniana e poi sciasciana, e infine addamiana, della Sicilia-universo, come se in Sicilia ci fossero stati, e ci fossero ancora, accadimenti ed esperienze di tipo esemplare, se non archetipico.

Ed è altrettanto vero che le sue riflessioni filosofiche sull'uomo coinvolgono sempre, insieme col pensiero italiano (non manca la sua attenzione almeno a Gramsci, Gentile e Croce), tutto il pensiero europeo, certamente quello più congeniale, ricercato e discusso, non solo negli autori e nei testi speculativi, ma soprattutto nei testi letterari, convinto, come pare il nostro autore, diciamo manzonianamente e braudelianamente, che l'intuizione di un letterato possa cogliere la realtà più a fondo di quella di un pensatore puro; e altrettanto convinto che, giusta Charles Snow (Le due culture, 1959) e giusta lo stesso Vittorini, venga finalmente denunziata la frattura fra umanesimo e scienza, e si dia all'antropologia, cioè allo studio dell'uomo, quella motivazione e quella valenza culturale che sopra tutto la scienza, e in particolare la scienza filosofica, può dare. Il fatto principale è che in Sebastiano Addamo si realizza un connubio strettissimo tra filosofia e letteratura, (e non poteva essere diversamente data la sua professione di storico della Filosofia e dunque, gentilianamente parlando, di filosofo), dopo che il suo giudizio critico-letterario è sempre quello gentiliano di un philosophus additus artiftcl, sicché le sue problematiche filosofiche vengono prevalentemente ricercate, come si è detto, nei testi letterari.

Altro fatto fondamentale è indubbiamente la contemporaneità delle sue operazioni culturali, l'attenzione quasi esclusiva agli eventi del' 900. Ad eccezione di Goncarov e Dostoevskij, gli autori citati è discussi appartengono al secolo XX, e; ad eccezione di Kant, Hegel e Marx, i pensatori e i sociologi chiamati in causa sono per lo più del suo tempo.

Ovviamente, e Sebastiano Addamo non poteva non averne coscienza, la storia dell'uomo in chiave scientificamente antropologica, che diventa filosofico-letteraria, pone subito il problema di fondo che è quello strutturalistico e storicistico; se l'antropologia propriamente detta si è sempre professata strutturalista, e dunque incline alla sincronia e', per dirla con Kroeber, ai modelli di base, mentre in Sebastiano Addamo è forte l'istanza storicistica e dunque diacronica, anche se la sua ricerca impone un ubiconsistam risolutore dei problemi umani, un po' come Popper che rifiuta, (come la rifiuterà Sebastiano Addamo, pur cercandola affannosamente e disperatamente), un'universale sicura ricetta conoscitiva ed operativa, salvo a pensare ad un ideale regolativo, almeno tecnologico, di tipo kantiano. Ma il problema eudemonistico, nei termini storicistici e olistici con i quali viene meditato da Addamo, chiama pure immediatamente in causa quel fondamentale strumento conoscitivo e operativo che è la dialettica, la quale non poteva non diventare strumento storicistico da quando Hegella identificò con la stessa filosofia e la contraddizione su cui poggia non era soltanto, come sostenne Popper, una pura condizione di pensiero, ma, come aveva pensato Hegel e come incalzò Adorno, anche una struttura oggettiva del reale. Ma si da pure il caso che un autorevole antropologo, come Kroeber, pensi pure ai modelli di sviluppo e introduca nell'istituzionale sincronia dell' antropologia culturale quel tanto di diacronia che, senza pensare a contraddizioni vere e proprie, è sinonimo in Addamo di storicismo. E si da pure il caso che un altro autorevole antropologo, qual è Radcliffe-Brown, si faccia promotore di un'antropologia funzionalista, anche in dipendenza di un impianto più storico che scientifico, comunque sempre organicistico, nella quale la struttura si configura come attraversata da una rete di funzioni e relazioni sociali interdipendenti, dunque in movimento, dunque in qualche modo di tipo dialettico, se la dialettica fondamentalmente, in base alla legge di contraddizione, intreccia sempre conflitti e rapporti fra tutte le entità del pensiero e della realtà.

Ora, tornando alla dialettica, come sinonimo hegeliano di filosofia e dunque come strumento conoscitivo da adoperare marxianamente non più per descrivere il mondo ma per cambiario, non più vittorinianamente per consolarlo, ma per farlo progredire, è lecito concludere che Sebastiano Addamo abbia preso qualche distanza da quella triadica formulata da Hegel e ripresa da Marx, due pensatori preoccupati di un assetto definitivo del mondo, a costo di sacrificare qualcuna delle prerogative umane, ad esempio: la libertà, pur di giungere ad un risultato concluso e sicuro.

C'è qualche storico che distingue le due dialetti che: definisce di conciliazione quella hegeliana, e di trasformazione quella marxiana. Ma a Sebastiano Addamo non poteva sfuggire l'esito storico-politico di entrambe, se quella hegeliana patrocinò il dispotico stato prussiano e hitleriano, e quella marxiana la dittatura russa del proletariato.

Dopo di che non sorprende che egli non propenda per quel tipo di dialettica, (almeno non ne ho trovato menzione), e lasci intendere di optare a favore della dialettica riformata, che è quella dei francofortesi, in particolare di Adorno, (che pur aveva aVuto qualche sintomatica apparizione nel pensiero italiano di Bertrando Spaventa e di Francesco De Sanctis, per non dire dello stesso Croce), la dialettica diadica che in fondo riprende il criterio hegeliano della negazione del negativo, ma lascia, per così dire, aperta la competizione e non mette in discussione il libero movimento delle due componenti, quanto dire la libertà concettuale e operativa dell'uomo artefice di quella competizione e fruitore del suo esito. Dico questo perché in Sebastiano Addamo, nonostante il suo incipiente marxismo, nonostante le sue non secondarie adesioni al pensiero di Lukàcs, nonostante compatisca l'uomo come incatenato e soggetto alla sua "scienza", questa scienza, vedi caso, è sempre soggetta a quel "principio di contraddizione", scrive nel 1955, che è "la base di ogni sapere e d'ogni logica possibile". Per di più lascia l'impressione di uomo e pensatore libero, come attesta anche molta sua attenzione rivolta all' esistenzialismo, fautore quanto meno della libertas contrarietatis, e a quel marxismo europeo che prende le distanze dal massimalismo sovietico in nome della libertà individuale e persino, come in Garaudy, per recuperare la componente religiosa dell'esperienza umana, vogliamo dire sopra tutto, a Sartre e a Camus (la dialettica critica di Sartre, opposta a quella dommatica, non è pure la: dialettica del nostro filosofo, se con essa egli giudica il mondo e lo trova privo della dialettica necessaria alla sua salvezza e se, come Sartre dichiara nella Critica della ragione dialettica, "sono gli uomini così come sono, dominati dalla penuria e dalla necessità ad affrontarsi in circostanze che la storia e l'economia possono enumerare, ma che solo la razionalità dialettica può rendere intelligibile?"). Tenendo presente il concetto di dialettica diadica, che più della triadica sembra confermare il fondamentale principio di contraddizione, l'altra conclusione addamiana cui vogliamo giungere è che egli sta dalla parte di Adorno, ma non esclude Popper (si vedano le due contrapposte relazioni al Congresso di Heidelberg del 1961, che certamente lui non poté ignorare): infatti, del primo sembra accettare le contraddizioni del reale e del secondo le antitesi del pensiero, quanto dire che tutta la realtà, sia naturale, sia storica, sia intellettuale, sia esistenziale, per Sebastiano Addamo sembra attraversata da una permanente dolorosa conflittualità ( e allora la dialettica diviene per lui un puro prodotto del pensiero incapace di incidere nella realtà e la realtà appare un tale ammass9 di rovine e di infelicità che la stessa dialettica potrà solo capire e non risolvere).

Da qui, nella storia e in tutta quanta la realtà, la licenza più che la libertà, la guerra più che la pace, l'odio più che l'amore, la violenza più che la solidarietà, l'egoismo più che l'altruismo, i valori di scambio più che i valori d'uso, una società mercificata più che una società dotata di valori etici e spirituali, donde la sua risoluta condanna sia dell' alienazione da intendere non solo hegelianamente come stravolgimento dell'uomo che, alla maniera del personaggio camusiano, si vede e sente diverso ed estraneo a se stesso, ma anche marxianamente, in riferimento al giovane Marx del 1844, come ritorsione contro l’uomo del suo stesso prodotto; sia della reificazione, giusta la lezione del congeniale Benjamin, della riduzione dell'uomo a cosa e dunque a merce.

Insomma non è errato sostenere che almeno dopo le enunciazioni in qualche modo ancora utopiche (l'utopia non più nell'accezione tradizionale di non luogo ma in quella novecentesca, di Mannheim e Bloch di rifiuto del passato, in funzione di un futuro più a misura d'uomo), contenute nel citato saggio vittoriniano, nel quale, in chiave appunto utopica, si confrontano già e si integrano "esistenzialismo e marxismo" e viene annunciata "la ricerca di nuovi valori" (Vittori... cit., pag.6), sollecitati dal "nulla" e dalla "angoscia" prodotte dalla guerra, un' angoscia da non riferire più kirkegaardianamentea Dio, ma alla "società", "Disperazione e speranza" (ibid., pag.7), cioè ricerca e conoscenza di "che cosa si rifiuta, per andare avanti" (ibid), detto con puntuale riferimento a Lukàcs, sempre nella ricordata ottica antropologica, divenuta storica e utopica ("Non è per dimenticare l'uomo che si può volere una società nuova. E dell'uomo, sappiamo, resta questo come suo destino", ibid., pag.9). II che, oltre che della filosofia e della. conseguente politica, appariva compito quasi specifico della letteratura, quello di guardare all'individuo e alla società insieme, di "rappresentare, attraverso l'uomo, una realtà collettiva" (ibid, pag.12). Donde, da un lato, il riconoscimento della scomparsa di "valori assoluti" (ibid., pag.16) e dall' altro la ricerca di ciò che si muove nel "nostro tempo", della nuova"'strada" da percorrere, della "speranza da alimentare" (ibid., pag.16), anche per merito di una letteratura che, se è veramente "impegnata", come si era programmato, dovrebbe "poter agire sulla so. cietà, non soltanto raffigurando quello chè c'è, ma cercando di costruire il mondo possibile per gli uomini esistenti" (ibid., pag.18), ma purtroppo non era ancora l' auspicata utopia dialettica, sintesi di "storia e uomo, di collettivo realizzato nell'individuale" (ibid., pag.19).

Bisogna pur convenire che, ad un certo punto, sopra tutto dopo il saggio vittoriniano, che nella prima parte lucacsianamente mostra aperture e speranze, com' era del resto nell'immediato dopoguerra, anche attraverso il riconosciuto apporto del neorealismo, tutte le prospettive utopiche e le speranze individuali e collettive si videro progressivamente e risolutamente crollare sotto la spinta di una società che si faceva sempre più capitalistica a danno sopra tutto del suo Meridione e della sua Sicilia, e dunque sempre più alienante e reificante, sempre più dominata non più dal rapporto proficuamente dialettico di natura e storia e di individuo e società, ma da una conflittualità che non lasciava scampo e rimedio di sorta e sollecitava verso un esistenzialismo sempre più negativo e chiuso, perciò decisamente antieudemonistico, nonché verso un collettivismo sempre più borghese e tirannico, sempre più egoistico e oppressivo.

Dopo di che, a parte le autonome specifiche riflessioni strettamente filosofiche e critico-storiche, che si leggono un po' dappertutto, con un riferimento sempre più privilegiato a Sartre e a Camus, la ricerca di Sebastiano Addamo sembra rivolta alla individuazione e alla illustrazione di temi e sopra tutto di personaggi della letteratura novecentesca, italiana e straniera, esemplari della nuova condizione per così dire epistemologica e storico-esistenziale che si andò formando nel secondo dopoguerra.

Non possediamo, almeno credo, alcun suo riferimento alla temperie non euclidea e einsteniana che rappresenta una fondamentale svolta nello svolgimento della cultura novecentesca, (non si può escludere che l'idea di un infInito illimitato ma chiuso abbia dato al nostro autore qualche conferma, e la pluralità proposta dalla geometria non euclidea abbia accresciuto la sua convinzione del disordine conflittuale e del tumultuoso affollamento del mondo ), ma siamo sicuri che almeno certa problematica freudiana sia entrata nelle sue riflessioni, sopra tutto in qualche rappresentativa tematica della Sua narrativa e in qualche modo sia servita come ulteriore strumento diagnostico, più che terapeutico, del malessere novecentesco.

La verità era pure che, giuste le considerazioni di Geno Pampaloni, lo scrittore siciliano, dunque anche Sebastiano Addamo, racconti e rappresenti sì la storia, la condizione individuale e collettiva dell'uomo, privilegiando quello della sua terra e facendo così dell' antropologia, ma presupponendo sempre un'idea, cioè una filosofia della vita e della storia, nel qual caso divenivano e divengono calzanti la obiezioni di Borges che voleva si prendessero le mosse non da una filosofia precostituita ma dall' esperienza vissuta, dall'esistenzialità storica, per risalire poi a un messaggio teorico da proporre. Ad osservare più sottilmente e profondamente, su questo piano per così dire strutturale, non esiste nell’opera addamiana uno schema rigido e uniforme, perché è vero che molte proposizioni filosofiche egli se le fa arrivare da lontano e paiono fare da semaforo alto alle sue crocevie, ma è altrettanto vero che il quadro di sofferenza e di disperazione, nel quale colloca le vicende del suo uomo, prima o dopo non importa, sembra sollecitato sempre dall'infelicità individuale e collettiva dell'uomo siciliano, salvo a trasformarsi, senza tentennamenti o dubbi, nell'uomo europeo e nell'uomo di tutte le latitudini. Né a questo punto possiamo trascurare la presenza e l'incidenza della componente religiosa, specialmente teologica, in linea con certa tradizione antropologico - speculativa della più impegnata letteratura siciliana, quella che faceva dire a Pirandello, quasi a precorrimento addamiano; essere Dio "buio pesto" e all'holbacchiano Sciascia essere Dio un Dio nascosto, disposto a mostrarsi solo quando si spargeva nel mondo sangue innocente, ma sopra tutto in linea con l'intera riflessione europea che partiva da Feuerbach e Marx e giungeva a Garaudy e ai teologi della morte di Dio.

Non a caso, qualche anno prima del saggio vittoriniano, Sebastiano Addamo medita sulla filosofia di Lev Sestov, (nelle traduzioni italiane Chestov), un pensatore russo di stampo niciano e kirkegaardiano, dunque antirazionalista, e per giunta pascaliano,

( Chestov e le beatitudini dellimpossibile, in "Pedagogia", IV, 1,1955), nel quale intanto è molto sintomatico che lamenti l'assenza di un "incontro dialettico da cui scaturisca

una verità", che per Chestov è solo "verità a priori" e "non sembra nell' ordine della ragione", dunque "verità" folgorante", se per l'appunto non si era avvalso delle "normali vie, logiche" e mostrava solo "la sicurezza dei dommatici", il che va detto a favore del nostro filosofo del suo spirito dialettico e problematico, dunque non dommatico, di una dialettica libera e storica (sartrianamente critica), che sopra tutto non accetta il torto che con siffatta filosofia si infligge al "singolo", cioè alla sua "angoscia" e alla sua "disperazione", alla sua "sete di libertà", come dire che rifiuta la tirannic3; dimensione di una "Necessità di tutti", se questa fa dimenticare l'individuo, la sua radicale singolarità, che è libertà. Ma non vi s'insiste più del dovuto, se il nostro autore sembra ugualmente preso dalla suggestione di siffatto filosofare, che pur definisce paradossale, quando accetta la tesi della indimostrabilità di Dio, proprio per l'impotenza della ragione, che si estende a tutta la condizione umana (tanto che ormai "nessuna speculazione è riuscita a riscaldare il freddo squallore della nostra esistenza" e il puro e freddo razionalismo ci porta al "dogma"), e con essa sembra accettare, potrebbe obtorto collo, in opposizione al fallito "illuminismo della ragione", quello che chiama "illuminismo della fede" e con esso un ritorno alla Bibbia (dunque solo "fede in Dio" e non Dio), quanto dire trasformare, attraverso la fede, la nostra "suprema disperazione" in "nuova speranza", data l'intenzione di voler "rifare il mondo", magari "fede assurda", una fede, ed "etica altrettanto assurda", una volta che "ragione" ed "etica" assumono il "volto duro e impossibile della stessa Necessità" (l'unica riserva, detto sempre a favore di Sebastiano Addamo, è che tutto questo non lo convincerà "su un piano dialettico", mentre è per lui pieno di fascino il "sogno" come lo chiama di un recupero "dell'antico Eden" "dell'innocenza perduta").

Siamo dunque ancora nella fase per così dire vittoriniana del nostro autore, nella quale si mettono insieme l'appello alla migliore dialettica che abbiamo illustrato, la constatazione della crisi che attraversa la società di quel tempo, le soluzioni dommatiche, come quella di Chestov, che garantiscono solo una fede, diciamo pure fuori e contro la razionalità, un 'utopia ancora restia a morire, data la forte pressione di una collettività quasi disperata e bisognosa di un autentico rinnovamento. Dopo di che potremmo  chiederci se in Sebastiano Addamo tale problematica significhi un certo recupero del divino, sia pure per via non dialettica, ovvero se ci si trovi in una delle tante antinomie, forse la più grave lacerante, che affliggono la speculazione novecentesca e ovviamente non risparmiano il nostro Addamo; che appare tra i più sensibili e tra i più fragili del suo tempo, anche se è proprio lui a irritarsi del sì pronunciato da Chestov alla domanda se Dio sia l'assurdo per eccellenza.           .

Vedremo come con l'incalzare degli anni e con la graduale impietosa risposta di letterati e pensatori, febbrilmente consultati e ovviamente scelti in strettissimo rapporto con i problemi che lo agitavano, che erano, non ci stancheremo di ripeterlo, i problemi del Siciliano afflitto dai suoi esistenziali disagi e dai disagi della. sua gente, e insieme sensibile al destino complessivo dell'uomo, mentre tale problematica trovava sempre maggiore riscontro nella crescente reificazione e alienazione della società novecentesca, perché proprio l’avveniristica nuova civiltà telematica e la crescente economia di mercato, l'economia del profitto, mettevano in più drammatica discussione la sua antropologia, la sua utopia filosofico-letteraria dell' homo sapiens come homo ./è/ix, e accrescevano il divario tra il nord e il sud del mondo, e lui era un intellettuale del sud, vedremo per l'appunto come vi si snodi dentro il suo discorso critico -letterario, poi soltanto letterario, che è quello meridionale, quello che Nicolò Mineo ha già acutamente e puntualmente osservato.

Intanto, dopo Chestov, giunge il primo riscontro storico -letterario che è quello meridionale, prima siciliano, nel citato saggio vittoriniano, e poi napoletano, nel saggio quasi contemporaneo su La Capria.

La narrativa siciliana gli appare, senza perplessità di sorta, testimone di storie, individuali e collettive, legate ad una società profondamente flagellata e malata, e allora si può sempre aggiungere che Addamo vi cerchi e vi trovi, a conferma del suo universalismo, lo stesso scenario messo su non casualmente dall' imperante congeniale cultura europea. Ecco che in Joppolo avverte la stessa diagnosi camusiana, nella

Di Falco l'assurdità di tipo dostovieskiano, nella Di Stefano l'uomo, come "uomo mafioso", espressione di un "mondo tutto chiuso e immobile", come in Chestov, un mondo "senza storia", dunque, perché il suo "meccanismo psicologico... non lascia e non consente libertà, sopra tutto non viene stabilita a1cunà "dialettica tra questo sottomondo e il mondo della storia" (Vittorini  cit. pag. 36).

C'è di più: lo stesso dialetto, che poteva configurarsi come la migliore testimonianza linguistica di un' autentica antropologia, significa soltanto o sopra tutto l'appartenenza "alla vita di una gente vissuta sempre al di sotto della storia (ibid., pag.!3), avendo come suo "termine di riferimento un sottoproletariato miserabile e incolto" (ibid,. pag.52), al quale non è possibile attribuire alcuna "continuità dialettica", se la condizione dell'uomo siciliano è assimilata a quella dell' animale (ibid., pag.58).

Ora, anche in queste notazioni storico-critiche e critico-letterarie, che possono apparire persino secondarie o marginali, le categorie di fondo sono sempre la natura e la storia anzi, in questa fase per così dire vittoriniana, è la storia. che fa da luogo e norma, col conseguente ripudio del determinismo riconosciuto alla natura e non senza certe premesse alle sue risposte, che saranno per l'appunto di disperazione antidialettica, quando natura e storia appariranno come una sola mostruosa e tirannica entità, conflittuale al suo interno, quando verrà fuori cioè il "profondo dell'uomo" (ibid., pag.93), l'uomo della storia apparso prigioniero senza scampo di una natura leopardianamente chiusa e ostile, dunque senza dialettica, l'uomo colto per l'appunto "in una dimensione quasi assoluta e quasi primordiale, un uomo di prima del peccato originale" (ibid., pag.95), soggetto a "una forza oscura e primordiale" (ibid., pag.1 04). .

Per questo egli rimprovera a Bonaviri "1’assimilazione tra uomo e natura" che rende "il suo mondo... fermo, immobile, pietrificato", non più "mondo reale", essendo tra l'altro "scomparso dalle coscienze" (ibid., pag.70) e come tale senza "una dialettica reale", esprimendo "aspetti di una medesima realtà" e non sollecitando l'altra e più concreta dialettica tra "mondo contadino" e "civiltà industriale" (ibid., pag.70), come dire che, sotto l'influsso di Marx e Lukàcs, Sebastiano Addamo una dialettica storica di conflittualità, sia pure di classe, riuscì per un momento a concepirla, salvo a trovarsene privo o a non avvertirla più, quando ritornò alla natura, al cosmo, alla sostanza primigenia dell'uomo e vi risc9prì la stessa assenza di dialettica lamentata a proposito di Bonaviri, se il connubio di natura e storia, come quello di individuo e società" gli apparve ad un certo punto quello leopardiano di una natura ostile e di una società corrotta, di un individuo infelice e di una società oppressiva, dunque un universo chiuso e labirintico, quasi di origine einsteniana, certamente pirandelliana, e in esso una sincronia addirittura caotica e centrifuga, com' è il mondo, tale che nessuna antropologia culturale ormai potesse più salvare, nonostante il suo programmato eudemonismo, e tutt' al più affogarsi il diritto o la possibilità di descriverlo; tutto il rovescio dunque dell'aggiornamento' metodologico-speculativo e sociologico patrocinato da Marx e Vittorini.

II discorso su La Capria (La Capria o la rassegnazione dopo l'impazienza, "Incidenza", 1961) ripete bene questo travaglio, dopo che guardare a Napoli 'Significava guardare a tutto il Meridione, dove viene più espressamente verificata e aggiornata la "nuova condizione italiana", quella della "nuova borghesia", che La Capria osserva "attraverso Napoli, una città per tanti aspetti anch' essa tipica, dove... _' è larga e feroce miseria" e si consuma la solita "kirkegaardiana dimensione… cioè la vita vissuta e bruciata giorno per giorno, senza passato e senza futuro" ( pag. 4). Quanto dire che "l'alienazione" del protagonista del romanzo emblematicamente divenga "scacco totale", "vuoto totale, di nullità e inutilità" (pag. 6), e che siamo ormai lontani da quella "fiducia nell'uomo" auspicata dal neorealismo, dopo che "il mondo del denaro" ha finito col prevalere, provocando "conformismo", "noia" e "corruzione" (pag. 7).

A questo punto è pure di estremo interesse l'attenzione rivolta a Camus, (Introduzione ad Albert Camus, Catania, 1968-.1969), che egli ama presentare nelle vesti di don Chisciotte, per la sua doppia conflittuale valenza di "assurdo" e di "rivolta", definita "paradossale", e vista nell'ottica "dell'ideologia" come "fede" e nella "tecnologia" come "speranza". Com'è vero che considera ingenuo il suo "nichilismo" e non lo sorprende la sua "equazione tra nichilismo e reazionarismo" (pag. 147). Ma ne ammira la "rivolta", in quanto "rifiuto di ogni situazione che porti all'oppressione umana", anche se non pare condividere il "rifiuto di ogni avvenimento storico" (ibid), che equivale al rifiuto dellucaciano (ma pure hegeliano e marxiano) senso della storia, incaponito come pare sul "destino individuale", sul "gesto inesorabile e solitario della rivolta" (pag.148-149), quanto dire che la storia, com' è da lui concepita, "non garantisce l'uomo" (pag.149). Insomma riconosce sì che c' è un "conflitto tra individuo e mondo, tra libertà e autorità, tra spirito e tecnica, tra vita e morte", ma riconosce pure che lo scrittore francese resti "diviso tra la coscienza di una impossibile alternativa e la speranza di una altrettanto impossibile conciliazione" (pag. 151), che in un universo siffatto "non c'è futuro, non c'è speranza" e, se "l'uomo è mortale" e "Dio non esiste", l'unica libertà disponibile è _'il proprio destino mortale", e il protagonista de Lo straniero, Mersàult, non è altro che "un condannato a morte in attesa dell' esecuzione".

Quello che Addamo sottolinea come interamente positivo, e non poteva essere altrimenti, è che in ogni caso in Camus il "valore difeso" sia "l'uomo", che ci sia cioè un "nemico assente", che è Dio, un "nemico scoperto" che è lo Stato e un "valore difeso", che è "l'uomo" (pag. 153), la cui estraneità nasce per l'appunto "dal confronto tra il desiderio umano e il silenzio irragionevole del mondo", che è addamiamente "una relazione non dialettica", se il suo risultato non "sarà un superamento...bensì un divorzio" (pag. 154). Dopo di che solo il "mito" può venire "in soccorso dell'uomo" (pag. 156), quando i 'uomo comprende di non "avere altro fine che se stesso" e solo allora "i suoi atti hanno valore assoluto", donde la felicità di Sisifo, nel quale la "disperazione suprema è diventata una conciliazione totale" (pag. 156-157), se è vero che la sua "rivolta", (scaturita per Addamo "dalla guerra, dalle distruzioni da essa operate, "dai campi di sterminio"), ha il suo antecedente "nell' etica kantiana", in "un a priori che fonda un valore" (pag. 158), e proprio "l'uomo è il valore", che nel Mito  individuale, mentre nella Rivolta "riguarda tutti" (pag. 160).11 solo difetto riconosciuto a tale impianto filosofico-letterario sembra l'assenza di autentica dialettica, se l'hegeliana "dialettica dell'idèa" e la marxiana "dialettica delle classi" per lo meno portano "verso la totalità", mentre la rivolta camusiana si configura prevalentemente come "tensione", che alla [me trasforma l'uomo in un "valore evanescente" (pag. 160-161).

Tale meditazione camusiana, così concentrata sull'uomo, il che non è poco nell' ottica di un’antropologia filosofica, spiega ampiamente il risultato più propriamente letterario riconosciuto al romanzo di Goncarov (Elogio di Oblomov, "Nuovi argomenti" 1971), il cui protagonista è pure lui costruito su una contraddizione ("la sua vita è il non vivere", pag. 111), donde la sua infelicità, il suo disinteresse nei confronti del mondo, la sua dispersione e frantumazione, che Addamo oppone, per migliore chiarimento, all'uomo "hegeliano", che è Andrea Jvanovic, donde la classificazione degli uomini in "schiavi e liberi", e la classificazione di Oblomov, protagonista, come "romantico", se romantica è "ogni esistenza incompatibile col proprio tempo" (pag. 114), se la sua è soltanto "solitudine", se egli è un uomo che "assomiglia stranamente a un suicida", pur "senza la privazione di coscienza che la morte reca" (pag. 114). II tutto, ancora una volta, come prova che con Oblomov il reale, che è il razionale di Hegel, abbia fatto il suo tempo, se è pure vero che egli è "l'ultimo abitante dell’universo  infelice", protagonista addirittura dell'hegeliano infInito "cattivo", tale perché, come il protagonista camusiano, "s'identifica con se stesso" (pag. 116). Prova ne sia l'altra coincidenza con Kafka proprio sul piano del falso, della menzogna, com' è altrettanto significativa la coincidenza con l'assassino di Baudelaire, il solo che possa esclamare: "lo sono libero" (pag. 121), come dire che, nicianamente e can1usianamente, l'uomo, - conclude Addamo -, "diviene arbitro di se stesso", perché "Dio è morto" (pag. 121).                    .

A questo punto bisogna pur guardare ad un Sebastiano Addamo che parla in prima persona, che scrive i suoi racconti e inventa i suoi personaggi, un Addamo che da critico letterario, della specie gentiliana del critico filosofo, diviene scrittore e lirico per suo conto (attenzione che non gli mancano momenti di autentica critica letteraria, metodologicamente impeccabile, se alcuni suoi sondaggi sono di tipo tematico - strutturale e persino di tipo stilistico, sino alla ricerca per così dire crociana del "grado di poeticità" di un' opera, cfr. Vittorini, cit. pag. 13 e ssg.).

Dopo di che è lecito chiedersi se egli abbia formulato una sua estetica che facesse da poetica programmatica e da poetica in atto. In quanto al narratore, è utile segnalare la consapevolezza che egli ebbe, forse sulla traccia di Boris Tomasevskij, della fondamentale differenza fra la "compattezza e unitarietà del romanzo classico e ottocentesco" e le "forme frantumate senza regola e ordine" della narrativa novecentesca (Vittorini  cit. pag. 14), dove, a parte l'intuizione della frantumazione come l'equivalente letterario della disgregazione e dell'atomismo di stampo storico antropologico, che sono al centro della sua riflessione filosofica, non v'è dubbio che l'antropologia, fondamentalmente sincronica, gli suggerisca il rifiuto di una diacronia di tipo balzacchiano o manzoniano e tale almeno sino a Verga e a De Roberto, e lo solleciti, pur non senza un filo conduttore che in qualche modo, più o meno tortuosamente, scandisca un certo corso degli eventi raccontati verso una strategia narrativa che fosse più mentale e psicologica che naturalistica o cronachistica, anche se c'è una esplicita rigorosa ambientazione storica dei fatti narrati, perché, scrive Sebastiano Addamo, le "ragioni" dell'arte contengono sempre "le stesse ragioni umane nel processo della storia" (Vittorini cit. pag. 63).

Proprio così, perché sono sempre le idee, le inclinazioni dell'uomo, i desideri, le passioni ciò che si rincorre e si legge nelle sue narrazioni,e si rincorre anche come risultato non solo dell'essere siciliani, (nei"due romanzi che prenderemo in esame, tutto è siciliano, a1meno come ambiente e personaggi), ma per l' appunto dell' essere uomini, nel senso pieno e universa1e della parola, uomini che cercano disordinatamente e disperatamente di essere felici. Dove non è difficile ritrovare le sue già illustrate, più scottanti e costanti problematiche filosofiche dell'individuo e della collettività, della natura e della storia, che divengono le problematiche della soggettività e dell' oggettività del narrare, non coniugate più dialetticamente, lo sappiamo, se dialettica, pur desiderata e cercata, pur sognata e programmata, non c'è mai (Vittorini cit. pag. 25 e 27).

Tutto un organigramma che, nelle scelte tematiche del narratore, non può fare a meno di far salire al!a ribalta, come fosse pirandellianamente in teatro, l'uomo siciliano, ("Tutto è commedia", scrive a proposito di Rosso di San Secondo ), protagonista va l'altro o vittima di "culture estremamente differenziate" che creano una "eterogenesi di [mi" con conseguenti "direzioni centrifughe, qualche volta riottose, sostanzialmente anarchiche" (Vittorinii dt. pag. 44-45). Donde il convincimento, che coinvolge anche la sua poetica, di una narrativa che "ha acquistato un diverso movimento, si è fatta più libera" (ibid. pag. 50), anche come equivalente del postbellico o tardonovecentesco "distacco tra centro e periferia" (ibid., pag. 50), nel quale, come vedremo in uno dei romanzi catanesi, ha avuto il suo peso sia "l'involuzione politica", anche di tipo culturale (ibid, pag. 52), sia quella "disgregazione semantica" che appare come "l'ultima ritorsione contro l 'ufficialità culturale e politica" (ibid. pag. 52), se non come riflesso della nuova epistemologia del postmoderno.

Una metodologia, cioè una poetica, tutta novecentesca, insomma, che possian10 definire, nonostante il neorealismo ormai confutato e superato, di stampo antinaturalistico, visto che, dichiara espressamente il nostro scrittore, il naturalismo avrebbe continuato ad assimilare "l'animale all'uomo" (ibid, pag. 58), nel momento in cui s'imponeva invece il più aggiornato e confacente rapporto "con la storia" (ibid., pag. 58), anche se storia con le mani legate, dato che la natura e l'uomo, l'individuo e la società, non cessavano di starci dentro, legati per l'appunto in modo inestricabile e tirannico. Che è poi quello stesso determinismo culturale, cui Sebastiano Addamo non rimane estraneo, che però, in sede di poetica in atto, del suo narrare, a parte le libertà speculative e anche a proposito della costante verificabilità popperiana del reale che dà loro conferma e che egli non cessa di concedersi, si trasforma o si integra in quelle "interazioni", anch' esse kroeberiane, che non. sono prive di autonomia, del cui tessuto è pure fatta la storia della cultura, in virtù della quale Addamo può concepire e cogliere una realtà frastagliata e movimentata al suo interno, all'interno del labirinto responsabile della sua condizione antidialettica, al punto che il suo stesso strutturalismo, antropologico sempre, più o meno, goda della necessaria mobilità, perché alla struttura egli guarda, e a: una struttura che si può definire aperta (pensiamo per un momento, per capire meglio, alla bache1ardiana struttura aperta di Umberto Eco) o dinamica al suo interno (come dire, giova ripeterlo, che la sincronia con la sua vitalità antropologica, non è mai una sorta di atomismo o monadismo positivistico, se non esclude mai, come abbiamo già accennato, una reciprocità, una interrelazione fra gli elementi che la compongono).

Altrimenti Sebastiano Addamo potrebbe convincersi che nessun messaggio venga fuori da un' opera letteraria, o perché, direbbe qualche teorico come Jakobson, una letteratura che meriti questo nome, che si consideri veramente impegnata, dovrebbe "poter agire sulla società" (Vittorini  cit., pag.18), se è anche vero, scriverà nel '1989, che "lo scrittore progetta utopie",come "uno dei suoi compiti istituzionali" (Oltre le figure, Palermo, 1989, pag. 35). Lo attesta il giudizio su Bonaviri, al quale riconosce tale “intento deliberatamente conoscitivo", qual è pure il suo, da trasformarlo in "gusto etico" e da consentirsi quella "solenne e mesta pietà che lo distingue" (Vittorini, cit.,pag. 47).               .

Una "ricerca umana" insomma che solo in quanto tale si fa "poetica", in quanto rivolta "alla scoperta della cosiddetta "quarta dimensione", che è il profondo dell’ 'uomo, la sua coscienza e il suo dolore, il suo istinto e la sua memoria, la sua speranza e la sua rivolta" (Vittorini cit., pag. 93).

Ne II giudizio della sera del 1974, un romanzo che contiene la storia di Catania durante l'ultima guerra, vista attraverso il protagonista (sicuramente autobiografico, se viene da Lentini) e i suoi compagni-amici che vivono in una pensione privata, c'è, come attesta lo stesso autore, (cfr. M.P. Fisauli- T. Ranno, Sebastiano Addamo_ - Catania 1992, pag. 5), "educazione sentimentale" forse alla Flaubert, ma noi preferiremmo richiamarci all' Agostino di Moravia, de11944, per il costante riferimento ai luoghi della prostituzione, e c'è poi sopra tutto la storia delle realtà politiche e socio-economiche prodotte dalla guerra fascista, i cui disagi maggiori si riscontrano nella prostituzione e nel mercato nero: lo sfacelo morale e materiale di Catania è infatti il quadro ossessivamente drammatico e tragico che ne viene fuori, se esso fondamentalmente, è il mio modesto parere (ne fa intanto da spia il riferimento all' Es  “singhiozzante e spasmodico" di pag. 49 e alle "piccole percezioni del subconscio" di pag. 72), riprende il triangolo freudiano di Eros e Thanatos al cospetto di un'Anangke che manca a causa della guerra e del fascismo (si veda il freudiano Disagio della civIltà, del 1929, e il Marx e Freud di Erich Fromm del 1962), che è poi l'equivalente per così dire psicanalitico del rapporto non dialettico, dunque della convergente conflittualità tra la natura come sesso e la storia come guerra e fascismo, tra la società come puttanesimo e mercato nero e l'individuo come egoismo e suicidio.

Non a caso vi è quasi sempre vistoso e calzante il mero dato antropologico, ("l'amore ha il colore degli uomini", pag. 2t; il signor Domenico "un uomo secco e giallo" Pag27. "sentore di donna" "vecchie" "artritiche"pag. 34; "l'uomo di una volta e l'uomo di ora", pag. 47; "uomo cordiale", pag. 52; "se è un uomo", pag. 61; "una puttana fa parte della razza umana", pag. 97; "hommini  vuole dire - per un catanese di Catania - aver fegato e non essere disposto a subire inutili offese… ma homini è sopra tutto un'ideologia recondita e precisa, modo d'essere, coerenza, capacità e volontà di sopravvivenza" pag. 107; "U cornuto.. .se muore come è morto il cavaliere è un uomo", pag. 147), ma dentro e attorno non possiamo non trovare il solito tessuto o la solita cornice filosofica, ("il regno delle prostitute" "come la nave di Hume", pag. 31; la "storia dei ciaramellari" "una dialettica di vizio e virtù, di malattia e salute, di peccato e grazia", pag. 36; "Dio e cibo...una e medesima cosa", pag. 55), e per giunta la conferma della vicenda storica siciliana e universale insieme, ("il denaro aveva trasformato non solo il signor Domenico ma pure il mondo e gli altri uomini", pag. 109; il sesso come "la vecchia straziante danza dell'universo", pag. 93; "La composizione e la struttura del mondo si ordinarono per noi anche nelle due categorie di fottitori e fottuti", pag. 64; "C'era Catania alle mie spalle.. c'era il mondo", pag. 60; "la guerra, la miseria... era la struttura del mondo", pag. 60), il tutto entro una filigrana ironica o sarcastica di tipo quasi pirandelliano, ("Che noi in quei frangenti così gravidi di tutto potessimo ridere", pag. 19; toccare "un culo" per toccare una donna, pag. 20; "Dio-Cristo sputato, pag. 34; "le puttane ci vanno in chiesa?" pag. 51), il tutto condito di vere e proprie sceneggiate, (vedi quella di Pippo e Gianni alle prese con una prostituta, pag. 57; il coro di pernacchie in via Maddem, pag. 58; la faccia grottesca del signor Domenico mentre "ghignava, si batteva sulle cosce, si dimenava sulla sedia", pag. 63; "Tutto essendo finto, anche la guerra rischiava di divenire finta", pag. 69): il tutto inserito nella concezione generale che sappiamo di antropologia culturale come antropologia filosofica e letteraria, se anche quella del "giardino" diventava "filosofia e visione della vita", pag. 74, ese la "roba" era intesa come "ente . metafisico e realissimo, visibile e invisibile, concreto e individuabile... vita e morte, felicità e sventura, padronanza e servitù", pag. 9.

Nel romanzo Un uomo fidato, del 1978, torna invece a campeggiare la filosofia "dell'assurdo" come unica logica del reale (pag. 17), alla maniera "dell'essere" e "nulla" di Sartre, che "si ribaltano, si avvicinano talmente da identificarsi" (pag. 73), un assurdo colto sia nel ritmo societario e individuale del tempo, del passato cioè e del presente, nel cui drammatico congegno l'uomo, specialmente come individuo, "non ha scampo" (pag. 17), se esso "l'uomo non può mai prescindere da una formazione che lo ha predisposto a riconoscersi come essere collettivo" (pag. 81), e non può nemmeno prescindere dalla constatazione che è insanabile la "frattura tra lui e il mondo" (pag. 88), dove non è difficile evidenziare la solita dilatazione per così dire cosmica delle singole situazioni sia oggettivali sia antropologiche (l'ufficio che diventa "il luogo reale dell'esistenza", (pag. 21); l'unidimensionalità totalizzante della condizione delle persone, se Trigillo è soltanto lo "schiavo del dottor Foti" (pag. 27): il tutto collocato e giudicato nella grande ambiguità o contraddizione insanabile, perché non dialettica di "diritto" e "violenza" "carità" e "brutalità" "spirito e materia" "libertà e tirannia" (pag. 53), e pienamente e specificamente riscontrabile nella confusione e nella crisi delle ideologie ( che ha un preciso riferimento alla situazione del compromesso storico e alle elezioni del 1976 e, sul piano psicologico e filosofico, allo "specchietto per le allodole "di Russel e all'incomunicabilità di Wittngestein), divenute il fulcro tematico dell'intero libro (il dottor Foti che da democristiano si fa quasi comunista e si suicida e Trigillo che da comunista si fa via via sempre più democristiano per amore della casa popolare che aveva chiesto e non ottenuto).

E torna ovviamente a campeggiare l'attenzione, tutta addamiana, speculativa e narrativa insieme, all' antropologia dei personaggi ("Questi sono gli uomini; gli uomini come Trigillo", pag. 30; "libertà dell'uomo" e "dignità dell'uomo" come parole "pietose"; "per la dignità dell'uomo"; "è difficile . essere uomini", pag. 39), un' antropologia di tipo indubbiamente sartriano che fa da specifica ispirazione al nucleo filosofico del rolnanzo ("in 'Ogni uomo c'è una astuzia recondita e perfetta che gli impone di trasformare in criteri di valore universale quanto è solamente frutto di elementari esigenze vitali", quanto dire, ironicamente espressa, una "spiritualizzazione" del 'trasformismo e del "clientelismo"). Ma torna pure all'eros, anche se in dimensioni secondarie, sempre funzionali, legato sopra tutto ai rapporti intimi fra Trigillo e la moglie ("Sentiva la mano di Rosetta sulla sua gamba", pag. 45; "con la mano le arrivò nel sesso", pag. 46, ss.). C'è di più: com' è ovvio anche questo romanzo aderisce alla poetica della nuova narrativa, a quella struttura cioè che è sincronica ed è pure libera, persino movimentata e quasi sconvolta, come in Céline, attraversata dalla stessa amara ironia, tutta siciliana e catanese, ma anche tutta universale, come quella di Brancati, il tempo è quello storico divenuto, nel ritmo narrativo del romanzo, il tempo bergsoniano della memoria attualizzante di Proust, lo scenario e i ritratti richiamano ancora una volta Pirandello, come si può osservare nell'episodio culminante di Trigillo che, in quella "specie di commedia, in cui lui fosse spettatore", si guarda allo specchio e vi trova "una maschera di orrore" (pag. 124).

Ora, ammesso che ne I mandarini calvi, del 1978, la condizione di "piccolo borghese", riconosciuta al professore-protagonista, non è solo di stampo sociologico, se viene ammessa dallo stesso autore quella "dimensione estetica e morale" che va a finire nell' ambiguità ipocrita del moralismo e del conformismo, e viene pure evidenziato quel passaggio, tutto proprio dell' antropologia addamiana, dal tempo delle prospettive a quello delle delusioni esistenziali; e ammesso pure che ne I chierici traditi dello stesso anno, il fallimento addamiano, relativo al destino del suo uomo, sembra specchiarsi nella crisi della stessa cultura, incapace ormai di offrirgli risposte adeguate, bisogna attendere il successivo libro del 1989, Oltre le figure, per ritrovare la solita specifica nutrita panoramica filosofico-letteraria, come fallimentare summa definitiva dell 'intera antropologia addamiana. Vi fa spicco infatti quella antropologia della morte di Thomas, con1e spettacolo e con1e distruzione dell 'uomo, ("con la morte l'individuo non è"), e nel contempo vi si snodano pure tutte le possibili situazioni antropologiche, dalle classi sociali, (vedi Huysmans), al fenomeno ricorrente del puttanesimo, (vedi Rosso di San Secondo), dal sesso al matrimonio, dall'inconscio collettivo (vedi Guastella) ai "lati oscuri" dell' esistenza, quali il delitto, l'omertà, la follia, ("l'unica certezza diventa la follia", vedi Rosso di San Secondo), agli esseri più abominevoli (il pidocchio): il tutto sempre nella avvilente certezza della non dialettica (così a proposito di Lanza): la vita essere "la forma di una laica ed effimera rappresentazione, un giuoco offerto non tanto in termini di contrapposizione dialettica né di antagonismo, bensì come necessaria convergenza di opposti", (pag. 86). La quale non può essere altro che" l'immobilità insieme statica ed errabonda, dove tutto è contemporaneo e tutto è remoto" (pag. 83), un tutto dotato per questo di "fascino maligno", a causa di quella sua addamiana "combinazione", in "luoghi senza tempo", "di perversione e di innocenza" (pag. 83), di vita e di morte (detto a proposito di Rosso: "si è vivi quando per la vita si è morti", pag. 95), a parte la ".totale. riduzione" dell'uomo "all'oggettualità" (pag. 14), che è da un lato una sorta di decesso e di putrefazione, (ecco il brancatianu "colore cupo… e soffio di morte", pag. 95; e il puzzo di cui parla Dostoevskij, pag. 24), e dall' altro, la prova della sua mercificazione (il riferimento è a Benjamin) e del "divorzio tra la vita e le basi della vita", tra l'uomo e la sua possibilità di "progetto nel. mondo" (il riferimento è a Camus), una volta detto e ripetuto (vedi ancora il riferimento a Rosso) che "l'uomo sta perdendo il proprio centro e il proprio significato" (pag. 78), perché la totale "assenza di punti di riferimento" (ibld) addirittura "annulla l'individuo, così come rende inconsi stente il mondo" (pag. 78).

Alla fine non possiamo non segnalare, a ripresa de I mandarini calvi

(del 1978) e dei Palinsesti borghesi del 1987, il tenlasocio-antropologico del professore che Addamo svolge nei Piccoli dei, del 1994, lui professore e dunque piccolo dio: dio se riesce ad avere intelligenza di tutto, piccolo perché il fondo e l'estremo di quel tutto, nonostante la perspicacia e la forza del suo ingegno speculativo e fantastico, mancandogli tra l'altro l'aiuto dei contubemali di pensiero e di esperienza, invano cercati e studiati, non riesce a coglierli o li coglie in modo da non soddisfare in pieno o da non soddisfare affatto le sue legittime aspirazioni conoscitive ed eudemonistiche. I professori-personaggi sono due, ma sono la stessa persona, cioè Salvatore Addamo, nella duplice veste di chi non può o non vuole credere e di chi ha la voglia matta di una fede sicura e pacificatrice. Non casualmente sono personaggi che "non si logorano, non putrefanno come i corpi umani" (perché in essi "essenze nominali ed essenze reali coincidono perfettamente" pag.9), anche per la ragione della loro "estrema soggettivizzazione" dichiarata dall' autore, il quale, alla fine, sa di non avere costruito dei "caratteri", ma giusta la sua antropologia filosofico letteraria, ne ha ricavato dei simboli (uno "razionale" e l'altro "problematico"), comunque sempre "individui" e come tali "privi di una valenza sociale", perché si trattava sopra tutto di rappresentare "la solitudine del mondo" (pag.13). Il professore Murgio non fa altro che leggere, come Adda!llo del resto infaticabile lettore di testi filosofici e letterari, (legge ad esempio Pascal e ne tira fuori il gioco della "scommessa", quella "che Dio esiste"); così si entra in possesso anche del mondo, che però, vedi caso, è un nulla, un "niente chiamato tutto", una dimensione di quella dialettica, falcidiata e menomata, che personifica e inghiotte tutto ("Il mondo, le strade, i fanali, l'acqua che senti scorrere in qualche luogo, un grido lontano, si assommano, diventano una sola cosa che fa paura", dopo di che il professore Murgio, cioè Sebastiano Addamo, veramente impazzisce pag. 19). Impazzisce di più nel chiuso monolitico luogo della sua esistenza, cioè nel "buio" della sua stanza, che è il "mondo del silenzio" e della "notte", dove tutto è "sconnesso", dove surrealisticamente, e dunque freudianamente, le "pareti" si trasformano in "mostri ghignanti", in "mummie", addirittura "nel volto sanguinoso" del conte Ugolino, nella danza, in verità poco dantesca, di angeli e diavoli. Non a caso come Sebastiano Addamo i surrealisti credevano in una sola antidialettica dimensione del mondo e la follia era la sintesi conclusiva cui approdavano, che è la stessa follia di Piazza Cavour ore 22 la lirica di Alternative di me/none dedicata al surrealista Breton, (nella quale si vedono solo "pazzi che affilano coltelli"). Il tutto dinanzi al solito "specchio", per così dire pirandelliano, "in agguato", che pare riprodurre per intero quella tregenda, ("Il mondo, pensava Murgio, l'universo era caduto", pag.23). Dove non alligna solo la "stanchezza", per così dire brancatiana, "di essere uomini" e la disperata speranza che possano fiorire i deserti, e le montagne "sollevarsi", ma si fa strada l'idea faustiana del diavolo che consiglia di andarsi a "mettere sotto qualche camion che passa" (in Murgio c'è Oblomov, e c'è Chestov, Camus e Breton; sopra tutto, ripeto, c'è SebastianoAddamo, c'è l'uomo e l'idea tragica che s'è fatta della vita, anche se espressa comicamente, o meglio umoristicamente, la quale è quella che, nonostante il proposito iniziale, nonostante la febbrile ricerca tra metastorica e storica, non riesce a trovare un senso, a convincersi di un positivo qualsiasi).

L'altro personaggio, il professore Toddi, è addirittura al polo opposto, auspica "Un semaforo universale... per tutti, dalla nascita alla morte", così "si starebbe in pace" (pag.30). Ma non ce la fa nemmeno lui, perché "l'uomo non è una macchina" (ibid.), e allora è costretto a confrontarsi col professore Murgio: le due facce della stessa identità antropologica, non dialettica, per l'appunto, perché alla [me sono la stessa persona, sono cioè Sebastiano Addamo nella duplice drammatica veste di chi non può o non vuole credere e di chi tuttavia ha la voglia matta di una fede sicura e pacificatrice. Perciò Murgio dichiara che Dio non esiste, mentre Toddi si lascia, andare a un "Dio ci deve essere", addirittura un Dio che "è buono", il tutto condensato nell'agostiniano "eterno presente", come fosse "l'alito delle cose" o il "sale della vita" (pag.33) ed è che il tempo come categoria "non esiste", e "sono gli uomini che lo fanno esistere"(pag. 3 7). Il tema di Dio ritorna ancora ossessivamente nel diario di Murgio, dove trova ulteriore conferma l'assenza di dialettica nella storia, se il "mutare" significa "solamente che un giorno si aggiunge a un altro giorno... che si è più vicini alla morte", (più che il rettilineo illuministico o il curvilineo romantico, sembra la parabola barocca che porta alla fine); e ritorna pure la combinazione sartriana di essere e nulla (pag.46), e con essa il perenne divorzio fra l'individuo e il mondo o la società, proprio come in Leopardi, (se non ci fosse, "sarebbe già vivere"); e allora esplode ancora la categoria antropologica dell'uomo come soggetto e oggetto d'amore, che non c'è, data l'indifferenza universale che lo circonda e non vede le sue sofferenze,. ("Inondo ti sputo", pag.53), e allora heideggerianamente si è come "imbalsamati dal ricordo" (pag.54), e non resta altro che il "deserto" a dare "un po' di pace" (pag.56) e il sentirsi "pieno" di un Dio che "non esiste" (pag. 59).

Potremmo chiudere qui, con questo racconto filosofico, che sembra per l'originalità del suo impianto fantastico e per la sintesi felice che offre del tormentato pensiero di Sebastiano Addamo la sua opera letterariamente più originale e rappresentativa, se un altro libro, il citato Alternative di memorie, del 1995, che in campo lirico ripete e rinnova la sintesi filosofico-letteraria, dunque antropologica, di Piccoli dei  non offrisse il vantaggio di un soggettivismo speculativo ancora più scoperto e di una somma  di espliciti referenti culturali che danno l'ultima migliore testimonianza del carattere europeo del pensiero e della letteratura addamiana. Com'è vero che qui, più scopertamente e disperatan1ente che altrove, Sebastiano Addamo cerca invano "l'inutile fondo delle cose" (pag. 18), se la sua attenzione ormai si volge solo alla natura e al cosmo, se tenta invano di imboccare una strada ("non sai più se andare, tornare" pag. 19), confessa che addirittura Platone "è morto", (quanto dire la sua dialettica e il trascendentalismo delle sue idee), la realtà è diventata un "muro compatto" ornato di "maschere" che "ridono" nella loro "disperata immobilità" (pag.21). Aggiunge che il tempo non è altro che "logica catena", ferma ad un autunno "senza vento", e il cammino dell'uomo, che ormai si compie in un universo tornato naturalistico, non è altro che "la follia dei passi-dietro a te", di cui spettatori emblematici e metaforici montalianamente sono uno "sparviero affamato" e uno "stabile gufo" (pag.22). Tutta una folla, dunque, come nell' allucinante vicenda dei Piccoli dei l'unica eudemonistica dimensione erasmiana e tobiniana: "i volti dementi paiono felici" (pag.23), quanto dire vivere fuori della storia e del tempo, ("Non ha più tempo, dunque?", pag.24). Dopo di che "l'esserci" heideggeriano e sartriano diviene il "buio fondo del pozzo", al quale mancano "gli strumenti di scandaglio" (pag.25) e quello della morte diviene "tempo astuto" (pag. 20) e lo stesso specchio non restituisce più nessuna immiagine, se essa "sullo specchio s'accampa -come fantasma" (pag. 27), e lo stesso numero "quasi architettonico" di qualsiasi ascesi, o religiosa o mentale, è "numero piattosoltanto di eguaglianza e senza resto" (pag.28) e addirittura, a questo punto, la "parola", che non era stata "un  patto", splende ora "sullo scempio di sangue", "cieca che illumina altri ciechi" (pag.30), la religione quella di "dei inetti e Testardi" (pag.31) e il gioco di "essere e non essere" soltanto uno "schianto", di chi vive e preferisce "l'esilio" (pag.33). E così le città sono "senza mura", quanto dire senza difesa e senza itinerari di salvezza (pag.35), la vita è fuori dell'uon10 ("è sempre altrove") e si è perduto il "senso" e la "misura delle cose (pag.36), e "neppure" la morte salva, se "nel pieno del mondo tutto è solo assenza" (pag.37), lo stesso "non essere" paradossalmente "non c'è",e il nuovo essere "non sarà" (pag.4l) e persino le parole sono divenute "cieche" e il sofocleo Colono "attende" anche noi, e se il "ceerchio" platonico si chiude, tuttavia "non adempie" (pag.45) alcuna funzione e con1e nel Godot beckettiano, "Non c'è dove andare, né da aspettare" (pag.46).

Per tutto questo Addanm scrive Galleria ore 21 pensando a Satre, e immagina il montaliano "punto di fuga - o d'attrito" (pag.53), pensando a Bertolucci; crede poi, rivolgendosi a Brecht, che l'allegria sia un "becchino" e quello degli uomini un "esercito di ciechi" (pag.58) e, con lo sguardo a Kafka, il cielo con1e un "cielo vuoto dell' età del ferro" (pag.60), la quale diviene nel ricordo di Baudelaire "l'età del vento" (pag.61); ed è "tutto in perdita", come nel mondo di Chagall (pag.62). Ma conviene ricordare pure sopra tutto il secondo pensiero a Kafka; quando immagina che l'uomo sbaglia sempre porte e strade, persino "la via di casa", dopo di che "l'ascensore non sale-non porta davvero in alto-bensì giù-nel baratro scombinato d'un pianerottolo-senza più uscita" (pag. 67). Non ultimo il pensiero rivolto a Gide, il cui modello del conflitto tra ciò che è immorale e ciò che è virtuoso, e della conseguente aridità e gratuità degli eventi, e il cui comunismo anticomunista sono fra i connotati non secondari dello stesso Sebastiano Addamo: nella lirica Via Senato- ore 22 (pag. 66) il conflitto è infatti tra "notte fonda" e "alba", e l'esito è ,quello "dell' evento" che "giunge in ritardo" ed è pure l'esito degli "specchi" che "riflettono sempre una sola immagine".

Nemmeno ultimo il pensiero rivolto ancora una volta all'altro sempre più contubernale filosofo-scrittore che è Camus, il cui "assurdo" (la ricerca di una ragione del mondo che non si trova e dell' estraneità cui ognuno è come condannato e non c'è che la rivolta per contestarla) suggerisce ancora una volta al nostro,autore l'immagine di una totale asocialità, se all'altro capo del telefono nessuno risponde mai e se il "banconista", che tiene" l'occhio di pesce", gioca con "dadi truccati" e il suo gettone è solo "funesto obolo-per la prossima morte" (pag:68). La stessa riflessione vale per il ricordo di Benjamin, altro pensatore;-letterato caro a Sebastiano Addamo, convinto certamente della sua nozione di Dio e della sua parola ormai perduta dopo l'irruzione nel vocabolario umano e dopo la consapevolezza di un'impossibile ricomposizione del mondo, sicché la "vicenda", "tutta la vicenda", si gioca tra "l'apparire e il suo-essere", solo che la "materia" diventa "untuosa" e "respinge lo scandaglio"(pag. 74), una tentazione che riaffiora a proposito del simbolismo combattivo ed enigmatico di Renè Char, se il nostro autore pensa che "Dovremmo andarci dentro-al fondo" e rifiutare questo "sordido sgomento di lumache", questo "buio odor-di bar", "questo immobile lago", il cui "enigma non cede alla parola" (pag. 78). Con tutta probabilità magari in chiave più tragica, siamo dentro quella sintesi di realismo e simbolismo progettata e realizzata prima da Pavese e Vittorini e poi da "Officina" di Roversi e Leonetti (quest'ultimo non a caso citato nel saggio vittoriniano ), nata dalla crisi del neorealismo e del comunismo dommatico e tuttavia con l'occhio sempre attento all'umanità storica da redimere e dunque éon quel tanto di simbolismo necessario alla significazione delle risorte speranze e delle nuove attese.

Ebbi la fortuna di conoscere Sebastiano Addamo a Enna in un simposio letterario di cui faceva parte il comune amico Leonardo Sciascia, (fra l'altro uno dei suoi critici più acuti), ed ebbi l'impressione, che mi è stata confermata dalla sua opera filosofico-letteraria, di un intellettuale solitario, schivo, polemico, come avesse realmente l'universo e l'umanità dantescamente, "a gran dispitto", (del resto cos' era il mondo per lui se non l'Inferno di Farinata?), ma io dopo averlo letto e tentato di capire preferisco un' altra parentela più vicina e congeniale, quella con Leopardi, sia per l'accezione moralistica del suo impegno speculativo-letterario, (ricordiamo il moralismo leopardiano evidenziato da Cesare Luporini), se moralista è il filosofo che cerca formule edemonistiche a favore dell'uomo e se di lui si possa dire quel che De Sanctis scrisse del poeta recanatese, "non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto", per non andare lontano il negativo adorni ano e calviniano, che rinnova e integra il negativo hegeliano e marxiano, ovvero il negativo utopico di Bloch.

Ma mi sia lecita un'altra analogia, che mi sta più a cuore, quella che l'ebreo G. A .Levi, nel 1931, ebbe a dichiarare sullo stesso Leopardi quale "imitatore inconsapevole di Cristo... nell'ufficio tremendo di scontare il peccato del suo tempo", proprio quello stesso che io posso dire di Sebastiano Adamo, un intellettuale che ha profondamente amato l'uomo, sino a farsi carico di tutte le sue sofferenze.

 

* La presente relazione, che viene pubblicata per gentile concessione del prof. Corrado Dollo, è stata già presentata al 3° Convegno di Studio "Per un bilancio di fine secolo-Catania nel Novecento", indetto dalla Società di storia patria per la Sicilia Orientale, Istituto dell'Università di Catania.

 


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