Solitudine di Verga

È quasi triste dover osservare che dopo anni di polemiche, di sentenze di morte e di rinascita, si debba essere sempre sul punto di fare i conti con Verga.

 Cos'è Verga? Un modello, forse; forse una ossessione, un rammarico, un rimorso.  .

Quando nel secolo scorso Soren Kierkegaard augurava per sé di non finire nelle aule scolastiche e sulle cattedre, certamente sapeva quel che diceva: sapeva certamente che l'essere insegnati non è la medesima cosa che essere letti, e che il divenire un 'classico' forse garantisce la perennità, ma probabilmente separa dalla contemporaneità. .

Che è anche il destino di Verga. Il quale attese i suoi critici, a lungo, e quando cominciò a trovarli, non fece in tempo ad avere i lettori. Ed era il timore che esprimeva Giaime Pintor il quale chiosando il noto giudizio del Serra: «Il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia», osservava che «era già l'esilio del romanziere vivente tra i maestri non letti».

Una   iconografia esiliante se anche Vittorini - anche Vittorini - poté parlare della «incalcolabile distanza a cui è rimasto il grande siciliano».

La sua sorte continua a essere questa: continuare a ricevere elogi di stima, ma essere più commentato che letto; ha critici (li ha trovati, ormai) ma non discepoli. Probabilmente nemmeno lettori.

 

E tuttavia, da che cosa viene quel modo di guardare alla Sicilia? Con la relazione Franchetti, con Giustino Fortunato, e senza Verga, si avrebbe quello sguardo tenero assorto e torvo che si ha sulla Sicilia? È vero: la Sicilia di Vittorini non è quella di Verga; nemmeno lo è quella di Brancati, o di Sciascia, o di Bonaviri. E tuttavia, non si tratta sempre di 'modi' di una ontologia che fu, e resta, verghiana?

Eppure fu uno scrittore di coraggio.

Dove si trova, dove si può trovare uno scrittore che rinuncia alla facile popolarità di una produzione mondana per intraprendere una direzione che lo condanna al silenzio; dove si trova un romanziere che sostituisce il successo con l'impegno e la ricerca, la popolarità con il silenzio? Fino a quando fu in grado di rappresentare gli ambienti borghesi e le passioni  care alla borghesia, egli poté garantirsi un lettore; da Nedda in poi cominciò a non aver più lettori. Non è anche questo un 'difetto' che continua a pesare sull'opera verghiana?

      E invece basterebbe questa scommessa, questa solitudine scontata e premeditata, a fare di Verga uno scrittore quanto meno singolare.

Ma ci sono altri elementi che spiegano la sua impopolarità, non soltanto la struttura della sua lingua. In Verga mancano quasi tutti i caratteri della modernità: manca l'eleganza, manca ogni rispetto per il lettore, manca l'ironia e la sottigliezza problematica, manca ogni volontà di scandalo; e invece c'è quella serietà artigianale che lo porta a rifiutare ogni tentazione metafisica: non è la parola divina, quella che abbaglia ed esalta, che ci dà il Verga, bensì il volto, il gesto, il dramma della terra, di una terra, una parola tetra, rozza, sentimenti grezzi e accigliati e senza quella mediazione che almeno li renderebbe accetti a una stagione come la nostra così estenuata e così meschina; ci dà un lavoro strenuo, paziente e solitario, dove si compendiano una saggezza difficile e una passione ostica e dura.

Ci sono i raffinati come Dominique Femandez ai quali, come dicono, un libro come I Malavoglia, cade di mano. E'l'opera gli appare «noiosa», la trama «sentimentale e piagnucolosa». Ha davvero importanza? A livello di siffatte categorie tre quarti di letteratura mondiale meriterebbe il rogo.

 

Ciò che forse può disturbare gente come Femandez è in fondo la mancanza di ogni prospettiva, è la rocciosa testarda negazione adialettica, dato che il pessimismo verghiano, privo com' è di ogni cautela, non dà spazi e non ammette catarsi. Certamente non fa nulla per rasserenare le buone coscienze critiche. O dentro, o fuori. La sua logica è elementare e rigorosa, è l'autaut, non certo l' et-et che da sempre ha consentito di salvare l'anima e di far vivere il corpo.

La fiducia di Verga nel cammino dell'umanità non gl'impedì di guardare «ai deboli che restano per via..., ai vinti che levano le braccia disperate»; il che non è contraddittorio, poiché solamente il cattivo storicismo può tener mente alla totalità e trascurare le tragedie individuali.

E non è davvero colpa di Verga se a un ottimismo e a un prospettivismo che sarebbero stati banalmente.

e inutilmente edificanti, egli contrappose il suo perentorio pessimismo: Verga ha rappresentato il momento di una tragedia, ma la sua onestà non gli permise di postulare false speranze. Come non è colpa di Verga se la realtà che rappresenta è in ritardo di almeno cent'anni non dico rispetto alla società inglese o francese, ma rispetto alla. stessa realtà milanese che egli aveva davanti agli occhi.

     Di questo Verga ebbe consapevolezza, e bisogna metterlo in conto quando si fa il discorso sulla sua 'ideologia'.

Nel 1879, in una lettera a Capuana, poteva scrivere che sì, forse sarebbe stato necessario cogliere i pescatori dal vivo, «come Dio li ha fatti», una che era pur sempre preferibile considerarli «da una certa distanza in mezzo all'attività di una città come Milano o Firenze», appunto perché le cose si colgono meglio nella loro evidenza, quando «sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi».

Sostituire la mente agli occhi: ciò vuol dire sostituire la ideologia alla nuda rappresentazione, ed è con questa «mente» che più immediatamente è volta a Milano che non alla Sicilia, che Verga si accosta ai Malavoglia e a Don Gesualdo.

Così, le note battute del Don Gesualdo: «Non ne fo più rivoluzione... ormai ho capito cos'è: levati di lì e dammi il fatto tuo!», perché mai dovrebbero combaciare con la opinione personale del Verga, dato che sono identificabili con la disorganica e individualistica concezione dell'uomo del sud, quella ideologia paleo-capitalistica come andava maturando e costituendosi nella società meridionale, in perfetta corrispondenza con quel tipo di sottoproletariato contadino anch'esso disgregato e individualistico di cui un esempio erano i Malavoglia?

 

Verga, beninteso, non è ancora Balzac: ma Verga sta al Balzac come la «roba» sta al denaro, come la

«piemontesizzata» Sicilia stava alla Francia già industrializzata.

Continuo dunque, quasi per istinto più che per ragionate ragioni, a non voler condividere la posizione di coloro che per forza vogliono portare l'opera di Verga più lontano e più in alto della sua ideologia, quan9° potrebbe essere più vero il contrario: che '.la ideologia di Verga è quella medesima che emerge dalla sua opera; e che tra le varie idee che Verga gestiva, tra di loro confuse e contraddittorie, quella idea fu veramente la sua che poi ebbe a far corpo con le sue opere.

L'antiletterarietà di Verga perché mai dovrebbe andare a scapito della sua intelligenza?

Intelligenza. Lo dico nel senso della intelligenza di quel Cavalcanti di cui scrisse Dante, il quale andava cercando se per caso Dio non fosse; nel senso di Dostoevskij che alla «intelligenza» dei suoi contadini, i quali nel fondo di una taverna andavano ragionando intorno a Dio, a questa intelligenza affidava la speranza della Russia.              .

Iudubbiamente la Sicilia non è «santa» come la Russia; né il laico Verga ebbe mai le sottili preoccupazioni teologiche dello scrittore russo, ma la «roba»ha il medesimo effetto catalizzante del Dio Dostoevskij ano prima ancora di essere una relazione sociale, oltre a costituire la vicenda esistenziale, essa è l'ente metafisico che altri aulicamente. chiama fatalità, ma che non soltanto spiega bensì produce gli eventi e le mostruose catene di sventura.

 

La roba è concreta, individuabile, quasi visibile; è di questo mondo. E le cose che produce: fame, miseria, dolore, matrimoni e fallimenti, ribellioni e morte, sono anch'esse di questo mondo.

Perché dunque non diciamo che Verga ha esattamente il misterioso e privilegiato destino di appartenere a quella razza di scrittori che possono scoprire se stessi nelle proprie opere?

In fondo, la biografia di Verga è quasi banale. Fino a qualche tempo fa c'era a Catania chi ricordava quel vecchio elegante signore che scandiva lentamente via Etnea per poi andare a colmare le lunghe ore vuote nel solito odoroso caffè dei Quattro Canti. E pure si dice delle sue strenue partite a tressette, e che una volta

(pare assieme a Capuana) si sia recato in calessino oltre Misterbianco e Paternò e Biancavilla su su fino alla nevosa Adrano onde far dirimere a un competente del luogo (forse qualche ex ergastolano) una delicata questione di gioco.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i Malavoglia e Don Gesualdo? Ed è da questa biografia che andrebbero viste le opere, o non è il caso di dire che proprio le opere ci permettono di prospettare la sua verità?

Cartesio sì - tanto per un esempio - questo angoloso intellettuale di una raffinata civiltà, aveva modo di celarsi dietro la trama delle sue concettuali Meditazioni: egli nell'apparente andamento colloquiale delle sue scritture, proprio sotto l'aspetto equivoco della biografia, teneva a celare se stesso.

 

Verga no. Verga non aveva di tali pudori, dato che non era un 'intellettuale', e la terrestre corposità della

sua idea non esigeva misteri, né maschere, né esorcismi; perciò egli resta siciliano cioè organicamente legato alla Sicilia. Il caso di Verga, la sua ventura, è di scoprire se stesso nel momento in cui scopre il mondo, una realtà infinita di sventure e di forza.

Così esiste una linea ininterrotta di pessimismo che percorre la narrativa siciliana. Forse anche una ininterrotta catena di rinunce. Per arrivare a Tomasi di Lampedusa, anche; e anche a Sciascia.

Perché s’è fatta tanta cagnara a proposito del Contesto? Eppure era evidente che già a partire da Il giorno della civetta (la parte finale, soprattutto) e poi con A ciascuno il suo, Sciascia stava compiendo un cammino quasi definitivo dalla speranza alla non speranza. E se Sciascia lo avvicino al Verga non è per le Parrocchie, né per il registro letterario (per lui che viene dopo la elegante Estetica di Croce, pure dopo la Ronda), né per il tema siciliano, bensì proprio per il suo rifiuto a sperare 'dalla' Sicilia.

In fondo, perché non può continuare a essere questo il triste sereno compito dello scrittore: continuare a pronunciarsi sul mondo (sia pure attraverso una sezione di mondo) per restituirei una nostra immagine disperata?

In Verga tuttavia la tragedia è più virulenta e cupa. Egli resta scrittore di Apocalisse. Avventatamente lo dico non soltanto pensando alla chiusa morte di Gesualdo, ma pure pensando al tragico destino di morte che incombe sui Malavoglia e su tutta Trezza. E vero: al giovane 'Ntoni Verga non sa concedere altre alternative se non di rientrare nell'alveo vecchio della casamadre. Tuttavia, non sarebbe stato un difetto di realimo - oltre che una cattiva azione - se gliene avesse riconosciute di altre?

E forse la “difficoltà” di una lettura verghiana è in relazione precisa non soltanto alla solidità d'impianto e alla

 «solidità» dei suoi romanzi, ma alla sua grandezza, alla sua superiorità morale e ideologica, perché dobbiamo riconoscerlo: la solitudine di Verga era continua.

 

 

articolo apparso su «L'Ora», 27 gennaio 1972 con il titolo Solitaria (Grandezza di Verga. 50 anni fa moriva il maestro del verismo.)