Sebastiano Addamo: un amico fraterno

di  Luigi Dugo


 

Sul finire degli anni '60, io, che arrivavo da Pachino, e Sebastiano Addamo, che proveniva da Catania, ci trovammo insieme a discutere di politica. Abbiamo fatto subito amicizia sia per la concordanza delle convinzioni improntate ad un marxismo ideale, così lontano dal pragmatismo e dai problemi nell'amministrare un Comune che il partito gestiva da am1i, sia per il modo accomodante e disinteressato di affrontare le discussioni, ma soprattutto per un'affinità caratteriale singolare: ambedue timidi, quasi paurosi di una pr9babile notorietà, desiderosi di passare inosservati e 10litani dai clamori, ligi al dovere di insegnare ed educare. Cominciammo a frequentarci, a fare insieme lunghe passeggiate confidandoci aspirazioni e obiettivi, considerazioni sul lavoro, gli innumerevoli nostri difetti e i piccoli pregi, e anche qualche immancabile problema della quotidiana esistenza. Era nata un'amicizia fraterna supportata dalla stima reciproca, dalla schiettezza delle confessioni; e per me era anche un autentica gioia discutere con un Uomo dalla cultura immensa, dalle idee originali, profonde.

Riconosco che spesso era un suo problema l'approccio con gli interlocutori, che lo consideravano a volte scontroso, a volte burbero e taciturno. . . Penso che tale interpretazione fosse il risultato della timidezza e riservatezza che non riusciva a nascondere: ma con me, come con tutti gli amici (e, in fondo, anche con gli studenti) era generoso, cordiale, sempre disponibile, dispensatore di consigli sinceri, a volte sarcastico, a volte triste ma altre contento, allegro, gioviale anche davanti alle piccole gioie quotidiane quali un invito a cena, un incontro, una gratificante conferenza Nemico sì dell'ignoranza, non tollerava l'arroganza e la presunzione e, con assoluta generosità, premiava la cultura, l'intelligenza, la perseveranza nello studio, la profonda conoscenza nell' argomentare rispettando le idee altrui.

Ricordo che una volta, in occasione di un concorso magistrale svoltosi ad Enna, diede il massimo della valutazione ad un giovane candidato che aveva manifestato idee di estrema destra discutendone con una straordinaria dialettica, con appropriate espressioni linguistiche analizzando gli argomenti trattati con estrema capacità confrontandoli con le idee marxiste. Io non finirò mai di ringraziarlo perché, certo delle mie potenzialità, impose, con amichevole energie a impegnarmi seriamente a "imbrattar tele"; mi introdusse nel mondo della cultura presentandomi numerosi e importanti scrittori (fra cui Sciascia, Corsaro, Consolo...), letterati, saggisti, editori, galleristi. Mi aiutò ,a esporre i miei quadri a Palermo, a Catania, a Firenze contribuendo così a quella discreta rinomanza di cui oggi godo, attutita forse solo dalla mia indolenza, dalla modestia, da una costituzionale riluttanza al successo così come Sebastiano.

Non accettando alcun compromesso con i nostri ideali decidemmo insieme di abbandonare la politica attiva. lo dipingevo e Sebastiano scriveva racconti, articoli; saggi su riviste di letteratura, sui quotidiani.

E confrontava e discuteva le proprie idee con autori, critici e amici (padre Corsaro, Silvano Nigro, Manlio Sgalambro, Nicolò Mineo, ...) che spesso invitava nel piccolo giardino di aranci, a quattro passi da Lentini, che aveva comprato non tanto per averne un guadagno ma piuttosto per potersi isolare a comporre le opere, per limare i concetti e soprattutto la scrittura.

Aveva sicuramente capito di non essere da meno di tanti scrittori di fama e, in cuor suo sperava di poter ottenere una fetta di notorietà e, (perché no?), di successo.

 

Pubblicò Il Giudizio della sera, ebbe lusinghieri apprezzamenti dalla critica, l'approvazione incondizionata di tutti gli amici e significativamente anche dell'editore, il quale pretese e ottenne il trasferimento a Milano per agevolare le conoscenze e i rapporti con critica, stampa ei circoli culturali.

Ritornò a Lentini dopo brevissimo tempo non aveva trovato nella caotica città la quiete della sua campagna, la giusta serenità a elaborare le idee e a comporre, così lontano dalla sua Sicilia, dalla famiglia, dagli amici, La città frenetica rubava il tempo e le occasioni alla fantasia e alla meditazione per le quali erano necessari il sole, la solitudine, la pigrizia.

In seguito continuò a scrivere sui quotidiani e su riviste letterarie; compose e pubblicò per Sellerio, Garzanti e per l'amico Scheiwiller saggi, romanzi, racconti, poesie, sempre con lusinghieri giudizi della critica.

Ma il successo, il successo di pubblico e di vendita non fu mai eclatante. Questo lo rammaricava e lo intristiva. Ne cercava con puntiglio le cause forse la difficoltà delle proprie proposte, colte, erudite ed innovative, potevano essere uno scoglio per lettori distratti e smaniosi di una letteratura amena facile e di scarso contenuto; forse la lontananza dai grandi canali di comunicazione impedivano la conoscenza della sua scrittura.

La delusione lo portò a definirsi "grande scrittore di sicuro insuccesso" ma non rinunciò mai alle proprie convinzioni e ai propri scritti ritenendoli validi e significativi come attestano le traduzioni in svariate lingue straniere.

Alla fine degli anni novanta, il pessimismo, la sua visione della vita e della morte, ma soprattutto la malattia, lo portarono ad un isolamento ancora più accentuato; si trasferì da Lentini a Catania e smise praticamente di scrivere

Io  ricorderò Nello Addamo come un fratello, come un Uomo non comune, per mitezza, sensibilità, disponibilità, gentilezza, per la sincerità e la lealtà verso gli amici, per la cultura, per la sagacia e genialità dello scrittore poco compreso dalla critica corrente. Sono certo che Addamo avrà la giusta riconoscenza del suo sconfinato valore e sarà collocato fra i maggiori scrittori italiani, così come sono e sono stati i conterranei Brancati, Vittorini, Sciascia, Consolo, Bonaviri, Bufalino, Piccolo e tanti altri, tutti siciliani protagonisti incontrastati della letteratura italiana ed europea del secondo novecento.